martedì 16 febbraio 2010

Piero Colaprico, Mala storie

Un mese di lavoro per due spacciatori di hascisc: 75mila euro

Scrivere cronaca è raccontare storie. Sempre, ogni giorno. Ascoltare e poi mettere assieme i pezzi, fare una sintesi, guardare negli occhi e cercare di cogliere i pensieri, il non detto. Andare oltre l'istante che ha segnato il protagonismo e ripercorrere la strada del prima. Le paure, le sofferenze. Ma anche il tragico che sconfina nel surreale, l'incredibile. Ogni articolo di cronaca racconta vite, inciampi, rabbie, perdite. La paura di una fuga andata male, il controllo di polizia con il chilo di cocaina nel baule, le traccia lasciata mentre si credeva di aver fatto tutto alla perfezione. Ascolti e poi metti assieme i pezzi, costruisci una trama scegliendo delle parti, qualche aspetto, un momento. Ripercorri i percorsi esistenziali che hanno portato due persone ad essere un assassino e una vittima. Ti chiedi cosa significa essere una vittima, e perché la vita di alcune persone arriva fin lì. Cerchi le spiegazioni, che esistono sempre, anche nelle recite più assurde.
Assieme alle persone ci sono i luoghi, gli sfondi della periferia o del centro città, le figure a margine. Le motivazioni, che spesso ti aspetti chissà quale retroscena, e poi scopri che dietro la cosa grossa ci sta una rabbia piccola, cresciuta, non governata. Esplosa dal niente. Il bello di fare cronaca è scoprire le persone, tutte quante. 
Chi, come Piero Colaprico, la cronaca la fa da venticinque anni per La Repubblica, di storie ne ha raccontate tante. Piccole  e grandi, da trenta righe e da settimane di prima pagina. Tolte dalla loro contingenza, dal loro essere fatto quotidiano, diventano tutte storie. Storie di mala. O meglio, Mala storie (Il Saggiatore, 365 pagg., 18 euro), il volume che raccoglie una selezione degli articoli usciti tra 1985 e 2009, scelti tra le migliaia scritti in questi anni. Si parla di tante cose, di massacri e della "Banda del buco", di migranti e di Eluana. E di un sacco d'altro. Alla fine c'è anche un bel ringraziamento ai colleghi, a quelli con cui lavori bene, nonostante tutto. 

Perché questo lavoro di raccolta di articoli di cronaca?
Non l'ho fatto io, anzi sono stato molto sorpreso, prima della richiesta, poi di quanta passione ci abbiamo messo Aurelio Pino e Andrea Gentile del Saggiatore nello scegliere, su oltre tremila, la loro compilation. Ho visto il libro a cose fatte e, se faccio finta che non siano gli articoli di mezza vita, emerge davvero un quadro, un po' alla Bosch, del cambiamento nella mala, nelle strade, nelle nostre città. 

Quanto il Colaprico scrittore ha attinto dalle storie giornalistiche, ed in particolare dalle sue?
Aver conosciuto davvero chi soffre e soffrirà mette in sintonia con le vittime, aver ragionato con assassini e detective permette di delineare personaggi credibili, aver rubato e continuando a rubare sempre da tutti le loro frasi, mi aiuta nei dialoghi. Senza il lavoro del cronista, il lavoro di scrittore sarebbe stato diverso: diciamo che sono diventato più rapinatore e più zanza nella scrittura. 

Come sono cambiati i protagonisti delle cronache in questi ultimi vent’anni?
Una volta c'era gente che considerava la malavita un mestiere alla luce del sole, oggi tutti tendono ad essere "fantasmi" e, per altro, le tv e la spettacolarizzazione del male rendono molto banali anche le sutuazioni più drammatiche. Spesso i più miseri tendono a mettersi davanti al video, con le lacrime o le invettive o le rivendicazioni. La mia idea è che se loro cambiano, noi cronisti restiamo legati a un imperativo: cerchiamo di restare fedeli alle complicazioni della verità.


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